Vite sbobinate
Quando abbandoni la pianura geometrica, quella dei capannoni industriali che si susseguono senza soluzione di continuità lungo la via Emilia, e ti addentri lungo strade secondarie che portano alla bassa, verso il Po, allora il paesaggio pur rimanendo di una piattezza stupefacente, inizia a mutare. Più ci si avvicina al fiume, più si entra dentro la bassa. La sensazione che si ha approssimandosi al serpentone d’Italia è quella di sprofondare. Anzi, penso che a un certo punto fra Reggio Emilia e mettiamo, Guastalla, lo sprofondamento è tale che si passa da un’altra parte. Si, perché entrare nella bassa è entrare in un territorio diverso da quello conosciuto.
Lo spirito rettilineo che domina il disegno della pianura, con le sue strade, i canali che separano i campi, le case disposte lungo linee e a distanze sempre ben calcolate, nell’abissarsi verso la bassa tende, non tanto a scomparire, quanto a rarefarsi, per poi riapparire sotto un cielo enorme come linea d’orizzonte. La piattezza si fa qualità intrinseca della terra e del cielo. E’ solo allora che arriva il Po, e lungo le due rive i paesi di Brescello, Viadana, Boretto, Buzzoleto, Pieve Saliceto, Pomponesco, Gualtieri, Dosolo, Guastalla, Santa Vittoria, Luzzara, Suzzara.
Un avvicendarsi di piccoli paesi umili, agricoli o portuali, nobiliari anche, come Gustalla che era Ducato. Tutti hanno in comune il fiume, il grande fiume Po. Per chi non è di quelle parti non sa che nei confronti del Po c’è un rapporto, un legame che lo si può definire a dir poco viscerale. Sarà per questo che la maggior parte dei pittori Naïf intervistati e raccolti nel delizioso volume pubblicano da Quodlibet – Vite sbobinate e altre vite -, prima o dopo sono andati a vivere proprio su quelle rive. Qualcuno di loro c’è nato qualcun altro c’è pure scomparso dentro al fiume. Dobbiamo ringraziare Alfredo Gianolio che, come dice la seconda di copertina del libro: « incoraggiato dall’amico Cesare Zavattini, ha incominciato intorno al 1970 a registrare e trascrivere (cioè sbobinare) con amorevole cura i racconti autobiografici dei pittori Naïf che vivono lungo il Po».
La sensazione che si ha leggendo questo libro è proprio quella di percorrere un nastro magnetico srotolato, delicato e vecchio, che bisogna far attenzione a prendere in mano perché si potrebbe spezzare o ancora peggio intrecciare e annodare con molta facilità. Le voci che sono corpo vivo, ancora si fanno sentire sulla carta, senza perdere quella freschezza e immediatezza che ha il racconto orale. C’è tutta la musicalità, il ritmo spezzato, a volte secco a volte dolce della lingua emiliana del novecento preindustriale. Il sussulto, il modo di dire dialettale, non sono vezzo, richiamo a un’infanzia linguistica, ma corpo che ha provato quella cosa e la ricorda nel suono. Nell’italiano spesso sgrammaticato che leggiamo, l’uso improprio di un verbo o un aggettivo definisce quel tempo lontano che hanno vissuto, dove gli studi s’interrompevano, quando si riusciva almeno a iniziarli, perché bisognava andare a lavorare o perché si era donne. Voci che raccontano di fame e disgrazie e che trovano soddisfazione, respiro, aiuto, affermazione, fuga nell’arte della pittura Naïf.
Uomini e donne privi di una specifica formazione pittorica, che senza aver frequentato scuole o accademie, a volte senza neanche una vera e propria formazione di alcune genere, se non quella della vita vissuta, a un certo punto della loro esistenza dura e grama si mettono in riva al Po a disegnare e a dipingere. I soggetti sono perlopiù naturalistici, ma, come ha mostrato il più celebre fra di loro, Antonio Ligabue, non per forza realistici, anzi. Quello che colpisce dello stile Naïf, è stata la capacità di autoaffermazione: riuscire a costruire un movimento la cui visione si è affermata in modo preciso, pur non avendo un canone. I naïf con i loro quadri, con la loro visione, ma anche con i loro racconti sembrano suggerirci che una prospettiva sbagliata non è solo sbagliata, ma può aprire a un modo di vedere la realtà nuovo e inaspettato. Che un colore dosato in maniera grossolana o la semplicità delle linee di forza nel rappresentare un volto, un animale o un paesaggio, spalancano davanti ai nostri occhi un mondo dove la parola fantastico, non è pura aggettivazione. Il fantastico per i Naïf sembra essere inteso come quella qualità dell’umano che immagina per capire quello che è fuori dalla nostra portata. Che si deposita sulla tela, sotto forma di linea netta, rozza, quasi incisa, piatta, come piatta è la pianura che l’ha generata.
La fantasia nella pittura Naïf, ci ricordano le voci sbobinate, non è qualcosa che è al di là del reale, ma nasce nel reale, anche in quello più agro, ne è parte integrante. E’ un modo per vivere il reale immaginando. Allora quella sensazione di sprofondare che si sente in quel punto fra Reggio Emilia e Gualtieri, forse non è proprio uno sprofondare ma un mettere in moto i meccanismi della visione, un lasciarsi alla spalle i capannoni per permettere all’immaginazione di mostrarsi.