Lo spazio fra le cose
Lewis Baltz è morto a Parigi il 22 novembre, tre settimane fa. Nella mia libreria ho un suo libro fotografico. E’ un’edizione che ho comprato in Francia, con sovra copertina rigida a tasca, dentro la quale è protetto il libro vero e proprio. Dopo che ho letto la notizia, mi è venuto istintivo riprendere il libro in mano, saggiarne il peso e la fattura e poi aprirlo con calma e tornare a guardare le sue fotografie.
La poetica di Baltz già s’intravede nella copertina. Pulizia, ricerca dell’elemento minimale, chiarezza. Mettere in ordine le cose tramite la documentazione accurata di case, macchine e oggetti sono elementi con cui ha tarato il suo linguaggio.
Le sue foto sono di una precisione eccezionale: il mondo è ripreso nel suo manifestarsi in forme rigide, lineari, in superfici piane e volumi. Fotografie che però non sono puro elogio della forma e neanche un tentativo di imporre uno sguardo, ma anzi, sembrano voler rilevare lo stato dell’esistente e tramite la forma renderlo evidente. Perché il mondo ripreso da Baltz è un mondo ordinario, talmente ordinario che spesso scorre davanti ai nostri occhi indifferenti. Quello che è trattenuto nelle sue fotografie è sempre qualcosa che sta ai margini, nelle zone liminali delle città, nelle waste land, terre desolate come le aree cariche di detriti delle lottizzazioni o delle silenziose zone industriali in costruzione.
E’, insieme agli altri fotografi del movimento New Topographics, che prese vita nella metà degli anni settanta del novecento, un acuto osservatore. E’ riuscito a intercettare e segnalare per primo il cambiamento che stava subendo il paesaggio assediato dalla modernità. Anche se quello che vediamo nelle sue fotografie è qualcosa che in parte abbiamo metabolizzato, il suo lavoro rimane uno strumento potente per comprendere quanto, nei vuoti del nostro paesaggio, negli spazi delimitati ma allo stesso tempo rarefatti che le sue fotografie rimappano, alberghi una forza di gravità che parla della fatica dell’esistere. Baltz è riuscito a rendere leggere architetture pesanti e pesanti i vuoti che creano intorno a sè. A mostrarci che in quei paesaggi provvisori e banali c’è molto della natura umana, del nostro modo di rapportarci al mondo, alla natura, a noi stessi.
Per questo quando sfoglio le pagine del suo libro e mi soffermo su un parcheggio vuoto, l’entrata di un capannone, un marciapiede della zona industriale di Irvine in California, un posto in cui non sono mai stato, ho la sensazione di conoscere quegli spazi. Perché sono dentro di me e forse, azzardo, in ognuno di noi.
Fra gli scritti di Lewis Baltz (in italia usciti per Johan&Levi) ci sono due pezzi che è interessante leggere per cercare di comprendere il suo lavoro. Il primo si intitola “Note sulle recenti aree industriali nel Sud della California”, dove con la stessa precisione delle sue fotografie, prende nota e cerca di inquadrare quanto sta vedendo. Un documento programmatico, dove emerge il suo fare progettuale, pensato e misurato che precede lo scatto.
Nell’altro pezzo troviamo Baltz riflettere su un grande fotografo americano, Robert Adams e nello specifico su di un suo libro The New West, che da il titolo anche allo scritto. Quello che dice di Adams, le parole usate per misurare la sua forza espressiva e concettuale possiamo prenderle e applicarle a quanto lui stesso ha realizzato. Forse le parole migliori per comprendere lo spirito che animava il lavoro di Baltz, le ha scritte lui stesso.
“C’è un aspetto paradossale nel modo in cui le fotografie documentarie interagiscono con il nostro concetto di realtà. Per poter funzionare in quanto documento, devono innanzitutto persuaderci del fatto che stanno descrivendo il soggetto in modo accurato e oggettivo. Il primo obiettivo è convincere l’osservatore che sono veri e propri documenti, che il fotografo non ha fatto ricorso a immaginazione e pregiudizi ma ha esercitato la propria capacità di osservazione e descrizione. Il documento fotografico ideale dovrebbe dare l’impressione di essere senza autore o artificio. Malgrado la verosimiglianza, però, le fotografie restano delle astrazioni: le informazioni che offrono sono selettive e incomplete. Il potere della fotografia documentaria risiede nella capacità di influenzare e riflettere nello stesso tempo le nostre percezioni del mondo esterno”.