Joachim Schmid e la Found Photography / Dai mercatini delle pulci alle piattaforme online di condivisione fotografica, la found photography è ormai in costante trasformazione, sempre più immateriale e sempre più diffusa e dispersa.

Joachim Schmid e la Found Photography

di LaJetée in Interviste

Ripubblichiamo un estratto di un’intervista a Joachim Schmid uscita di recente su Klat, magazine online dedicato all’arte, al design e alla creatività contemporanea in generale. Schmid è uno dei principali esponenti della found photography, un genere fotografico fondato sull’utilizzo di immagini trovate, anonime o familiari. Dai mercatini delle pulci alle piattaforme online di condivisione fotografica, la found photography è ormai in costante trasformazione, sempre più immateriale e sempre più diffusa e dispersa.

Fotografo, artista, archivista: difficile dare una definizione univoca del tedesco Joachim Schmid, pioniere della found photography che da trent’anni offre un approdo autoriale al flusso di immagini prodotte dalla nostra quotidianità. Schmid è soprattutto un predatore di esistenze e di sguardi altrui, uno che cerca e trova nei mercatini delle pulci, nelle librerie antiquarie o in quell’immenso giacimento di istantanee che sono diventati i siti di photosharing. Lui stesso riconosce che Internet ha rappresentato l’unico, decisivo spartiacque del suo lavoro: in rete c’è tutto e subito. E non è un caso che proprio a Flickr siano dedicati i 96 volumi del progetto Other People’s Photographs. Ma l’annosa attenzione di Schmid per la fotografia di tutti i giorni rileva anche un altro fenomeno, meno evidente e probabilmente più inquietante: in questi ultimi decenni l’estinzione della pellicola e l’avvento del digitale hanno cambiato alla radice il senso e il peso che diamo ai fermo-immagine della nostra vita. Lungo quel percorso di autoproduzione editoriale che è diventato il suo marchio di fabbrica, Schmid ha così documentato una vera e propria torsione dell’immaginario collettivo: dov’era una foto ce ne sono cento, dov’era un ricordo troviamo centinaia di istantanee che dimentichiamo un minuto dopo averle scattate.

Hai cominciato a lavorare sulla found photography negli anni Ottanta, e da allora questo genere è cresciuto in modo esponenziale. Quanto è cambiata la situazione rispetto ai tuoi inizi?

Moltissimo. Nei primi anni Ottanta occuparsi di foto trovate era un’attività da outsider: erano pochi gli artisti affermati che, come John Baldessari o Christian Boltanski, potevano permettersi di lavorare con questo tipo di immagini. Oggi, invece, per ragioni a me del tutto oscure, la found photography è diventata una tendenza decisamente mainstream. Nessuno mette più in dubbio la sua legittimità. Che si sia in Inghilterra, in Olanda o in Germania, in tutte le scuole d’arte gli studenti lavorano con materiale ritrovato.

Quali sono le principali conseguenze di quest’evoluzione?

A me, per esempio, capita spesso che qualcuno voglia mostrarmi i suoi lavori, ma poi invece di parlarmi di fotografia mi racconta di sua nonna. Con le foto ritrovate c’è il rischio di venire coinvolti personalmente, e questa è la ragione per cui io mi guardo bene dal metter mano ai miei album di famiglia. Non mi interessa fare un lavoro terapeutico sulle mie origini o i miei problemi familiari. Alcuni pensano che basti tirare fuori tre fotine di una processione ed esclamare: questa è mia nonna! No, dico io, non è tua nonna, è solo una maledetta foto! Ci sono un sacco di persone che fanno cose interessanti, ma molti altri pensano di ottenere chissà quali risultati prendendo una cosa qui, una cosa là e mescolando il tutto. E invece spesso non funziona.

Ricordi un momento di svolta nel tuo lavoro?

Credo sia stata un’evoluzione graduale, favorita principalmente da Internet. Con la rete è cambiato l’approccio: è come aprire il rubinetto di casa e trovarsi inondati di immagini. Per non parlare dei motori di ricerca: basta digitare un paio di parole e ti mettono a disposizione centinaia di migliaia di immagini. In sostanza, non occorre più uscire di casa in cerca di qualcosa di concreto, non si punta più all’incontro fortuito: si lavora comodamente alla tastiera con il mondo a portata di polpastrello.

È stato difficile imporre il tuo lavoro nei primi anni?

Difficilissimo. Trovai più accoglienza nel mondo dell’arte in generale, anche se lì c’era chi diceva: ma l’ha già fatto Hans-Peter Feldmann! O cose del genere. Nel mondo della fotografia le reazioni invece erano più del tipo: ma che vuole questo? Non usa la macchina fotografica? Allora che fotografo è? C’era molta confusione, anche perché in quegli anni la fotografia stava ancora lottando per essere riconosciuta come una forma d’arte. C’erano ancora gallerie che si dedicavano esclusivamente alla fotografia, che era come dire: siamo artisti anche noi, siamo artisti anche noi! Il prezzo che si è pagato per far sì che la fotografia fosse riconosciuta come una forma d’arte, è stata l’esclusione di tutto il resto: abbiamo la buona fotografia da una parte, che è ciò che fanno gli artisti, e un sacco di cattiva fotografia, pura spazzatura che non vale nemmeno la pena di chiamare fotografia. E le due cose sembrano non avere niente a che fare l’una con l’altra. Io invece la penso in modo diverso: la stessa identica immagine può essere usata in pubblicità, comparire su un quotidiano, avere un ruolo in un contesto privato ed essere virata verso una forma d’arte. A fare la differenza sono gli aggiustamenti minimi, e un contesto diverso.

Osservando il tuo lavoro si avverte una cesura fra due periodi distinti: le foto cartacee e Internet. Dopo aver esplorato a fondo Flickr con i 96 volumi del progettOther People’s Photographs, pensi di tornare a lavorare con le foto cartacee?

È un tira e molla continuo. Ai tempi della mia prima connessione Internet rimasi affascinato dalla quantità di materiale disponibile online, ma dopo un po’ me ne stancai. Capii di non avere nessuna intenzione di passare il resto della mia vita seduto davanti a uno schermo come una scimmia. Oggi esco ancora di casa in cerca di spunti concreti. A volte li trovo, a volte no, ma la porta non è chiusa. Uno dei motivi per cui ho dedicato così tanto tempo a Flickr, è che avevo già fatto un lavoro simile con Archiv: nonostante fossi molto soddisfatto dal tipo di approccio, mi ero dovuto accontentare di scatti di quasi mezzo secolo prima.

Perché questo gap temporale?

Le foto finiscono nei mercatini delle pulci solo dopo la morte dei protagonisti, il che significa che ci sono un sacco di immagini degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta e Sessanta, ma poi è come se il mondo si fermasse. Per lavorare con le foto contemporanee avevo quindi bisogno di ricorrere a Internet. Inoltre, per creare dei pattern e realizzare un’esposizione di forte impatto visivo sono necessarie parecchie immagini: anche limitandosi a quattro o cinque istantanee per pannello, ce ne vogliono almeno 40 o 50 per completare una serie efficace. Oggi, nell’era delle foto online, il rifornimento è pressoché illimitato e le immagini sono a disposizione praticamente in tempo reale. Sono queste le ragioni per cui ho dedicato tutto questo tempo a Flickr. Other People’s Photographs è essenzialmente un remake di Archiv in condizioni diverse.

Quali strategie usi per cercare le immagini giuste?

Non ho una vera e propria strategia, mi espongo al mondo e sono curioso di vedere cosa succede. Recentemente sono stato qualche giorno in Portogallo e mi sono ritrovato in una libreria di seconda mano a Lisbona. Lì ho scovato certe riviste sulle star del cinema: si capiva che erano appartenute a una giovane donna che si era divertita a colorare le labbra di tutte le attrici ritratte. Non avevo mai visto niente del genere, si è trattato del ritrovamento assolutamente fortuito di qualcosa che non mi sarei mai messo a cercare. Immagina Lisbona negli anni Cinquanta, una società povera sotto una dittatura che non offre nessuna via di fuga. E immagina una giovane donna che inizia a sognare il cinema perché quella è l’unica strada capace di portarla altrove. Quando faccio un incontro del genere, capisco subito che è qualcosa su cui avrò voglia di lavorare.

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Articolo di: Fabio Severo
Fonte: Klat Magazine

10 Dic 2013