Verderame 16
Questo racconto è stato scritto tempo fa, intorno al 2002. Sono passati molti anni e molti di più sono quelli che ci separano dalla Prima Guerra Mondiale, cento per l’esattezza. In questi mesi molte sono state le iniziative per ricordare quella che è stata considerata la prima guerra moderna: nuova nei modi, nelle tecnologie utilizzate e nella quantità di orrore e morte che è riuscita a produrre. Per non dimenticare, noi de La Jetée, abbiamo pensato che questo racconto, scritto da Roberto Malfagia, potesse contribuire a non far perdere la memoria di quei fatti.
Verderame 16
Mi hanno fatto saltare una gamba. E questa non è una cosa da poco, visto che mi serviva per far coppia con l’altra e camminare.
Ora mi ritrovo seduto con questo bel moncone a farmi compagnia in un ospedale da campo: quattro ferri bruni messi su con un tendone verde sopra. Non mi aspettavo di meglio da quella che chiamavano guerra.
All’inizio, quando addosso avevo solo i racconti dei vecchi, sapevo quello che mi aspettava. Ma non comprendevo. Ora è chiaro: sedici chili in meno, di cui sei irrecuperabili.
Un bel giorno vennero a chiamarmi e mi dissero che l’Italia era entrata in guerra. Visto i miei vent’anni significava che mi toccava partire per il fronte. Avevo seguito per un po’ il parapiglia politico che si era venuto a formare dall’inizio della guerra, c’era chi voleva e chi non voleva intervenire, io per conto mio non volevo intervenire. Da quello che mi aveva raccontato mio nonno, le guerre non servono a niente per quelli che come noi se ne stanno qua nei campi a lavorare la terra, che è già un guerra di per sé. Piace solo a qualche sfaccendato con le smanie, che siccome non gli basta mai, vuole e vuole di più. Sono pochi i casi in cui qualcuno prendeva l’arma in mano per una buona ragione. Ora mio nonno mi aveva raccontato le guerre da campo che aveva fatto, gli scontri in campo aperto fra eserciti. Quella che ho visto non mi è sembrata simile a quella che mi ha raccontato mio nonno. Non che in passato fosse un gitarella andarsene a menar per campi, morire si moriva comunque, ma qualcosa in questo schifo che mi hanno fatto fare non mi torna.
Appena arrivato in caserma mi dettero quaranta chili di zaino che chiamarono casa; una divisa, degli scarponi, un fucile, insomma tutto il necessario per starsene via qualche tempo e far fuori qualcuno. Furono solo pochi giorni di preparazione, fatti di sagome, primi assaggi di polvere e urla, prima che ci spedissero come terza divisione fanteria nella valle dell’Isonzo vicino Gorizia, fra quelle terre bianche del Carso. Durante l’addestramento ci avevano spiegato la natura del terreno della zona geografica dove saremmo andati a combattere e il tipo di guerra che di conseguenza andava fatta. Guerra di posizione, la definirono, che in buona sostanza significava scavare dei fossati e con la stessa terra rimossa fare dei rialzi per proteggersi dai confetti nemici. Trincee. Lunghe ferite che percorrevano a volte per due, tre chilometri, la terra, che di li a poco iniziò a sanguinare.
La notte lassù, a volte vedevo la luna inabissarsi fra le crepe biancastre della terra. Veniva inghiottita senza ritorno. Un paesaggio privo di consistenza, brullo e desertico, appariva all’improvviso, al diradarsi delle nebbie, illuminato di verde dei razzi di segnalazione. Disperso fra declivi e anfratti, i picchi montanari dall’alto della loro veduta sembravano giudicare in maniera irrimediabile quel silenzio notturno. Gli uomini sembravano sassi polverosi al cospetto di quelle vette.
Era proprio una di quelle che dovevamo espugnare. I torrioni di roccia che gettavano il loro sguardo sull’altopiano carsico dove gli austriaci avevano conquistato quella posizione da tempo e dove avevano piazzato su delle belle mitraglitrici, bombarde e artiglieria con l’intenzione di restarci a tempo indefinito. E così fu.
La distanza fra la nostra prima linea e la vetta non superava i cinquecento metri. Uno spazio riempito da reticolati, fossati e raffiche di shrapnel che falciavano i corpi di noi soldati come se fossero grano maturo. Dal comando ci facevano sapere che il generale Cadorna incitava le truppe a non scoraggiarsi e farsi onore in nome della casa Savoia e a smantellare le posizioni nemiche considerate un punto nevralgico della guerra contro gli Imperi Centrali. Altri assalti erano stati tentati a quella vetta, ma non c’era stato niente da fare. Io e gli altri eravamo i nuovi contingenti che dovevano effettuare quelle che poi definirono l’ennesima spallata contro il nemico. L’ottava battaglia dell’Isonzo. Capii perché avevano mandato noi in prima linea. Freschi e incosapevoli ci saremmo lanciati verso morte sicura, cosa che non avrebbe fatto chi già aveva effettuato l’assalto. E per questo che sul fronte dell’Isonzo c’era un ricambio così veloce delle truppe.
Come mi resi conto dopo il nostro attacco, non ci poteva essere nulla di più insensato che mandare degli uomini a morire in quel modo.
L’attacco fu deciso per il dieci ottobre 1916. Fin dalla mattina di quel giorno, dove cielo e terra non conoscevano confine per quanto il grigiore assalisse qualsiasi cosa, le nostre artiglierie dalla piana di Gorizia iniziarono a sfondare i reticolati delle linee nemiche. Alle 14,50 fu dato il via all’attacco. L’urlo avanti Savoia fu l’ultima parola che sentii pronunciare. Tutto quello che mi ricordo di quei momenti sono i corpi falciati dei miei compagni che in mezzo alle polveri e sassaiole alzate dalle bombarde cadevano a brandelli contro il laminatoio meccanico geometrico inesorabile, del fuoco delle mitragliatrici*, corpi saltare e dilaniarsi colpiti in pieno dalla voracità delle bombarde, carabinieri fucilare chi tentava di tornare indietro e sangue, seccato all’istante dalle polveri di quelle doline, che nascondevano il volto della morte, che cadeva sui nostri corpi senza sapere cosa avevano fatto per meritarsi tutto quello, quelle urla e quel puzzo di carne bruciata, che a chi sopravvisse rimase addosso per giorni. Non so quanti sono i compagni che persero la vita nell’assalto a cui presi parte e non so quanti altri né morino fra quelle crepe, il fatto sta, che quando fra la povere vidi in faccia il volto della guerra, mi resi conto che quelli a morire erano ragazzi come me, che un giorno come tanti erano stati prelevati e vestiti con una divisa per andare a morire in nome di qualcosa che non sapevano cosa fosse. In nome di ideali, senso di giustizia, libertà e valore che non avevano volto ne consistenza se non nelle parole di chi le pronunciava.
La cosa ridicola è che la gamba me la presero a battaglia quasi finita. Fu grazie a un proiettile di bombarda a scoppio ritardato che durante la ritirata mi portò via di netto la parte di gamba dal ginocchio in giù. Un’esplosione, il rosso vivo nei miei occhi di quel giorno e buio.
Eccomi qua ora, in questo ospedale da campo, a massaggiarmi quella parte mancante di me. Guardando quello che rimane del mio corpo, mi vengono in mente le parole del soldato semplice Bruno Corelli, morto in battaglia. Mi ricordo che una notte, sotto una pioggerella insidiosa e insistente, mi disse: “Inizio a capire sai, perché le bestie giù a casa mia hanno quegli occhi silenziosi e muti. Le facciamo lavorare finché non crepano. Quegli occhi ora li vedo nelle nostre facce. Noi che stiamo con i piedi a bagno in questa poltiglia verde di fango, illuminato dai razzi di segnalazione.
Mio padre mi diceva che mettere a bagno gli zoccoli delle bestie in acqua e verderame li faceva diventare più duri. Così reggevano meglio il dolore. Cosi hanno fatto con noi.”
Mi guardo i piedi e ne manca uno.
* la frase “laminatoio meccanico geometrico inesorabile del fuoco delle mitragliatrici” è una citazione presa dalla “ Danza della mitragliatrice” di Filippo Tommaso Marinetti.