Racconti dall’isola pianeta
E’ successo più volte che autori fra loro differenti si cimentassero nel racconto di una delle isole più a settentrione del pianeta: l’Islanda. Stavolta l’hanno fatto uno studioso di letteratura medievale e arguto, ironico scrittore, Claudio Giunta e un’abile osservatrice Giovanna Silva, fotografa, nel libro – Tutta la solitudine che meritate, Viaggio in Islanda -, appena pubblicato da Quodlibet-Humbolt. Ora, quella dell’Islanda mi è sempre sembrata una sfida linguistica, sia per le parole sia per le immagini. Non ci sono mai stato, ma da quanto ho letto e visto e da quel che mi riporta un mio caro amico che ogni tanto ci va, proprio a scrivere, l’Islanda è un luogo dove mettere alla prova la propria capacità di raccontare. Nello spostarsi tutt’altro che flaneuristico dei due, emerge un viaggiare pensato, calcolato, all’interno di una terra dotata di una bellezza straordinaria. Potremmo tirare fuori dall’armadio delle categorie estetiche, l’abito del Sublime e potremmo metterlo addosso a Giunta e a Silva e scopriremmo che gli starebbe bene. Di fatto la ricerca dei due autori sembra proprio incentrata sull’aspetto meraviglioso e terrifico di quella terra.
Quando si lascia la città per inoltrarsi dentro l’isola, racconta Giunta, non bisogna prendere mai strade secondarie, ma rimanere sempre sulla principale. A meno che, se lo si vuole fare, non si è provvisto a rifornirsi di viveri, coperte, benzina di riserva e quanto altro per affrontare un’immensa distesa solitaria. Qui, dice Giunta, la parola perdersi non può essere utilizzata in maniera metaforica. Non è uno scherzo rileva lo scrittore; anche per gli islandesi perdersi nell’isola potrebbe portare alla morte, e così racconta la storia tragica di tre amici isolani persi fra crateri e geyser. I crepacci di queste terre interne, gli orridi che si aprono nella terra e gettano fumo, che emergono sotto la luce del nord catturata dalle foto di Silva, mostrano tutta la bellezza minerale di una isola pianeta, qualcosa che sta la, a sé, in mezzo all’oceano e vicino a ghiacci. Un’isola, sembrano suggerirci gli autori, dove il termine “solitudine” e “assenza” sembrano farla da padrone. Allora sono il linguaggio delle parole e delle immagini che tentano di sventare la solitudine, nominando le cose, raccontando le storie, mostrando luoghi e forme. Il lavoro dei due autori sembra combattere con la forza ammutolente che questo posto deve avere. Almeno è quello che emerge dalle fotografie e dalle parole dei due, che a un certo punto ce li immaginiamo fermi lungo un fiordo, chiusi in macchina, al riparo da un vento artico, a osservare intimiditi quello che vedono fuori. E fuori c’è tutto, tranne l’umano.
Quello che Giunta dice è che la solitudine islandese, non è come quella che trovi in cima alle Alpi. In fondo alle montagne, alle valli, ai fiordi, non c’è il paese, le strade, la città, l’uomo insomma. No, nel fondo del paesaggio islandese non c’è presenza umana, ma un’altra immensa solitudine quella del mare, che non è un mare qualunque, ma l’oceano freddo e tempestoso. Allora la lingua, nel silenzio dei vulcani a riposo, lungo colline di lava solidificata e cenere compressa, nei cretti di una terra misteriosa e lunare sembra arretrare, raccogliersi per trattenere il calore della luce. Le parole si fanno preziose, il discorso non si disperde, come non si disperdono le immagini e lo sguardo da cui dipendono, anzi il contrario, tutto si fa attento, profondo, ricco. Manca nel viaggio compiuto fra i due autori la visita al faro che l’artista italiano Claudio Parmiggiani ha sistemato in una dell’estremità più selvagge dell’isola. Ma, se il tentativo di Giunta e Silva era quello di mostrarci che l’Islanda è, come dice lo stesso Parmiggiani, – l’emblema della luce che lotta contro la notte, della natura che resiste; un faro, quindi – , allora i due ci sono riusciti.